| | | OFFLINE | | Post: 2.478 Post: 2.450 | Registrato il: 06/11/2006 | Sesso: Maschile | Power Handler | Main Eventer | Stivi / Canzano | |
|
23/09/2007 01:44 | |
Unhappy end.
La consapevolezza della notte spaventa ogni animo. Buia e saggia, abbraccia ciò che accade. Nessun gesto è stato speso assennato, lei lo sa. Le sue stelle, buchi d’occhi, hanno scrutato. Ma non giudica. Il giudizio è degli uomini, poveri d’astrazione. Lei è puro astratto. Nel suo silenzio immacolato, come un gigante che non ha sembianze, raccoglie la tragedia come la parodia, il dramma come la farsa, e ne fa poltiglia di senso, riconducendo ogni cosa a se stessa: senza sensi e senza senso.
Stivi rovescia il cadavere sul pavimento. Il tappeto accoglie quell’umano privo di vita come il lenzuolo di una nuova sindone. Che cosa sarà quella sensazione di freddo, guardando il proprio volto morto? Le mura della stanza sembrano dee protettrici della segretezza. Mentre Stivi guarda se stesso giacere morto ai suoi piedi, non ha parole per dire alcunché. Rispetta il silenzio, che grida nella sua testa. Esige, stoico, che Stivi non produca verbo. È la sentenza massima: vedere il proprio cadavere, scrutare la sua faccia morta e provare a resistere alla visione, senza che la mente crei una crepa nella corteccia cerebrale attraverso la quale fuggire; senza che il cuore decida di accettare l’entropia, smettendo di battere. Smarrimento è tutto ciò che sente.
Nel giardino regna la presenza della notte. Un vento gelido la trapassa, brano a brano, senza lasciargli un attimo di ristoro. L’erba è nervosa, stasera. I suoi steli si piegano e si scompigliano, in un disastro di disordine. Sembra che il mondo accolga un caos che non può comprendere. L’erba assorbe sensazioni e le rigetta fuori, in steli perfettamente verdi, che anche al buio paiono brillare. Ma il sospiro del vento le sta passando attraverso, sussurrando la fine di un dramma, e forse l’inizio del prossimo. Non c’è ribaltamento di concezione: ciò che sembrava fine, il dissiparsi di ogni pensiero insano, non è che una nuova spinta verso un’inedita pazzia.
Non ho retto, pensa Stivi. Ho visto la mia faccia morta e sono impazzito. Non posso essere qui.
Perchè adesso è un ragazzino, in età scolare. Avrà quindici anni, forse meno. Di fianco a lui, coglie, improvvisa per un movimento rapido della sua mano delicata, una giovanissima figura femminile. Gira il volto lentamente, quasi diffidente riguardo all’elasticità delle sue vertebre cervicali, e vede Melody. Poco più che una bambina, lei sta lì di fianco al fratello, un sorriso virgineo sul volto, di un’età in cui è ancora concesso essere vergini. Seduti su di una distesa d’erba immensa, rimangono a guardarsi l’un l’altro, senza spendere il tempo prezioso delle loro ancor giovani esistenze in parole prive di significato. Appoggia la testa sulla sua spalla, Melody, ride una risata che non si può sentirei in quel silenzio sacro, intoccabile. Stivi appoggia la testa su quella della sorella, gira lo sguardo davanti a sé e guarda... guarda l’erba che si estende infinita, a perdita d’occhio in quel declivio che scende chissà dove, in un luogo irraggiungibile pure dalla luce del sole. Ed infatti, come inghiottita, la luce solare rivela una parete di buio al limite della vista. Un buio impenetrabile, vergine quanto il sorriso di Melody ma un milione di volte più spaventoso. Stivi aggrotta le sopracciglia, stringe gli occhi e cerca di vedere meglio in quella tenebra: ma dove non c’è nulla, nulla si può vedere.
La luna rifratta. In tanti brandelli. Spezzata in più punti, ripetuta fino alla nausea. La sua luce sbranata in anfratti stesi sul cemento, che la catturano e la disfano in mille barbagli. I frammenti di quello che poco prima era stato un vetro intero ed intatto, ed ora invece infranto e reso puzzle irrimediabile di ciò che è stato, rapiscono il satellite e ne fanno loro schiava, brandendolo come premio della loro violenta creazione.
Stivi è seduto nel nulla.
Di nuovo nel vuoto.
Ancora una volta.
A parlare con se stesso.
“Ancora una volta, ancora qui. Ma non dovevo venirci più? Qui dove non esiste il tempo, dove il tempo non ha nemmeno senso come unità. Dove lo spazio si è dilatato fino alla morte di se stesso.”
Cerca movimenti che sa di non poter trovare.
“Mi sto dissipando. Piano piano, sto diventando niente. Lentamente. Come in una fredda agonia senza dolore.”
Sembra ironico e vorrebbe ridere. Ma le sue labbra non sono più tali. Il suo corpo è un oggetto del passato.
“I pensieri mi stanno abbandonano. Io non sarò più, tra poco. Sto... cominciano... a... spa ri re len ta men te. Le pa ro le so no dif fi col to se. I o n o n s o n o p”
Annullato.
Nel vuoto.
Annullato.
Il cancello è chiuso. Notte, luna ed erba accolgono tutto. Anche i tre cadaveri stesi per terra, il cui sangue versato sembra ancora più scuro nel buio. Occhi che non vedono. Bocche che non parlano. Orecchie che non sentono. Vita mai più. Andata via violentemente e persa per sempre. L’immobilità dei corpi stesi viene accarezzata dal vento come con il loro sonno facevano le ninne nanne di un tempo.
Il dramma è concluso.
Conclusa la follia.
E viene dunque la consapevolezza.
La follia lo ha abbandonato. Uscito dal vuoto e dalle paranoie, vede tutto per ciò che è, per ciò che dev’essere. Il cadavere di Hugh Perenzio giace ai suoi piedi, e i suoi problemi sembrano finiti. Ma allora perchè ha visto se stesso al posto del volto del mafioso? Perchè ha rivisto Melody bambina e quel muro di oscurità al limitare dello sguardo? Perchè, preda del vuoto, ha avuto la sensazione di scomparire, diventando vuoto lui stesso?
Perchè ha compiuto la sua opera. Da domani, cosa potrà fare che non sia già stato fatto? Come sopporterà il vuoto esistenziale di una soluzione assoluta già trovata? E come vivrà di fronte alla nostalgia dei begli anni con sua sorella Melody, quando ancora l’oscurità del dramma era lontanissima e le giornate scorrevano lievi? Cosa c’è per lui dietro l’angolo?
Respira piano, come a voler trovare la calma. Ma la sua mente non si gode la madre di tutte le vittorie, e si macera alla ricerca di un senso per i giorni a venire. Si sente privo di significato, e deve darsi un senso per poter portare avanti la sua esistenza. Vorrebbe alzare le spalle e dire che non importa, che domani troverà qualcosa, uno spunto da cui ripartire, verso un nuovo obiettivo. Ma l’indifferenza non è mai stato il suo status, né lo sarà mai.
Lascia Perenzio a marcire nel suo stesso sangue e compie a ritroso la strada per giungere sino al suo studio. Le scale scarsamente illuminate. Il soggiorno sfarzoso. E la porta finestra sfondata, attraverso la quale è entrato nell’appartamento. Stivi guarda la luna catturata dai frammenti di vetro, ma non ha tempo per i miracoli. Forse non ha più tempo per nulla. Gli occhi spenti dei tre cadaveri delle guardie del corpo di Perenzio lo scrutano senza vederlo. I cani gli si avvicinano, lo annusano e lo riconoscono, evitando perciò il benché minimo ringhio.
È tutto finito, pensa, mentre scavalca il muro di cinta e se ne va.
Tutto finito.
E domani?
|